Diario di viaggio Myanmar 1
L’arrivo a Yangon (Myanmar)
Prologo:
Facendo mente locale penso che fosse una di quelle giornate fredde di febbraio, tipiche qui a Milano. Il cielo talmente coperto di nuvole da non filtrare la luce solare ed una sensazione di persistente malinconia e uggiosità riempivano la casa.
Mi trovo sul divano sfogliando uno dei tanti libri di fotografia in cerca di ispirazione o di un insegnamento da chi ne sa più di me. Lo scaffale un po’ impolverato, complici la mia pigrizia nel condurre le pulizie e la mancanza di tempo in questo periodo per dedicarmi alla lettura. Estratto il tomo, resta una grossa macchia di pulito, come quando si sposta un quadro e si riscopre il colore originale della parete. La copertina porta in rilievo il nome di Steve Mc Curry uno dei fotografi che più ha influenzato la mia crescita e passione verso la fotografia. È probabilmente il volume più grosso e pesante che ho nel mio soggiorno, dall’apprezzabile fattura ma decisamente scomodo per una consultazione veloce. Le pagine scorrono lentamente una fotografia dopo l’altra; devo assaporare a fondo i suoi lavori. Poco dopo lo scatto che ritrae un venditore di arance di Kabul ne trovo una serie sul Myanmar. A primo acchito resto pensieroso, mi avvicino al mappamondo affisso su una delle pareti e controllo le informazioni basilari su questo paese: posizione geografica, confini, estensione e dislocazione delle città principali.
Non saprei definire esattamente cosa sia successo ma in quell’istante ho deciso che sarebbe stata la meta del prossimo viaggio.
Myanmar, tra sabbia e sudore: il viaggio incomincia da qui
E’ la fine di aprile quando il comandante avvisa l’equipaggio che il decollo è imminente. Dal momento in cui allaccerò la cintura a scatto e avrò alzato la tendina parasole inizierà un lungo viaggio che mi porterà alla scoperta di una terra che fino a pochi anni prima era sotto il giogo di una opprimente dittatura militare. Nonostante questo il Myanmar ha trovato la forza di rompere le catene, liberarsi e rialzarsi. Il leone è fuori dalla gabbia ed è mia intenzione vederlo allo stato brado prima che sia incatenato nuovamente, questa volta dal seducente stile di vita occidentale.
Nel fondo della stiva c’è il mio zaino, organizzato e preparato con la precisione di un piegatore di vestiti dei centri commerciali. L’attrezzatura fotografica, anch’essa pulita e in ordine è nella cappelliera sopra la mia testa. Zainetto piccolo ed essenziale, con me ho portato solo un paio di obbiettivi e tanti rullini digitali. Per 16 giorni la tracolla sarà un’estensione del mio corpo dalla quale non mi separerò mai.
Lo scalo a Bangkok non è dei più brevi né dei più piacevoli. A causa della stanchezza del viaggio decido di spenderne solo tre ore girovagando e facendo il turista mentre le rimanenti nove le passo in aeroporto, steso accanto ad una coppietta del nord Europa. Entrambi biondissimi con occhi freddi come il ghiaccio, sono caduti in un sonno profondo su un divanetto polveroso; probabilmente sotto quello strato di macchie e strappi il colore originale era un bel violaceo, colore tipico della Thailandia. Suppongo non siano abituati alle temperature del sud est asiatico, la ragazza è praticamente nuda, facendo intravedere piercing e tatuaggi che probabilmente rimangono nascosti per il resto dell’anno. L’indumento più vistoso di lui sono un paio di infradito color cuoio ed una folta barba curata. Al mio risveglio i due ragazzi sono scomparsi, lasciando il posto ad un pakistano dai piedi neri ed un braccio peloso che cade sul viso.
Attraverso le vetrate dell’aeroporto vedo il sole scomparire dietro le ali di coda degli aerei sulla pista. Per me è ora di proseguire verso il gate ed affrontare le ultime due ore di viaggio.
Yangon mi accoglie subito nel modo che mi aspetto, in un aeroporto che quasi sembra familiare: decadente all’interno come all’esterno. Le vetrate riportano adesivi orizzontali che richiamano le sbarre di una cella ed in mezzo il nome della città.
Un gruppo di individui si trova appoggiato sotto un colonnato esponendo cartelli scritti a mano e tablet a basso costo: riportano nomi di persone e di aziende. Una volta schivati passo attraverso le porte scorrevoli e mi ritrovo sulla strada: l’afa mi colpisce come il diretto di un pugile, aria pesante e cielo nero della notte. Come se non bastasse un gruppo di tassisti lotta per portarmi in hotel. Tirandosi e strattonandosi l’un l’altro si appoggiano a me ed indicano la propria vettura mentre la elogiano.
Uno vale l’altro, purché sappia orientarsi tra le stradine prive di illuminazione.
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