Le storie dei Lavoratori Dimenticati

Forgotten Workers

Di cosa parla questo progetto

Forgotten Workers

è il sussurro dei lavoratori dimenticati. Noi tutti viviamo in una società moderna e in frenetica evoluzione. Con scadenze quasi mensili ci vengono proposte delle “nuove certezze”: pilastri inamovibili che nella nostra testa appaiono solidi, eterni e maestosi come piramidi egizie. Dopo poco tempo, tuttavia, scoppiano come delle bolle di sapone. Basta poco, un semplice ago, o una nuova certezza che possa sostituire quelle precedenti. Mentre il mondo dell’effimero e dell’etereo si dà il cambio come una coppia di wrestler sul ring, una categoria di lavoratori continua la propria marcia in maniera contenuta, costante e silente.

Prefazione

Il concetto di lavoratore dimenticato non è esattamente moderno, ma si rinnova con la società e col passar del tempo. Qualche mese fa (ricordo che era un inverno freddissimo) su New York si era scatenata una tempesta di neve, quella che gli anglosassoni definiscono “blizzard”. Infreddolito e coperto come un eschimese, mi aggiravo tra le vie della Mid-Manhattan, un po’ per lavoro e un po’ per me.

Su di un grattacielo nei pressi di Times Square spiccavano le parole di Theodore Roosevelt: “non è chi giudica che conta, gli onori spettano a chi è attualmente nell’arena”. Roosevelt, il 26° presidente degli Stati Uniti d’America, aveva capito tutto già all’inizio del Novecento. Rimasi a fissare quelle parole per qualche minuto prima di capire cosa intendesse, fino a che la mia attenzione si focalizzò su loro, quelli che successivamente ho definito i Forgotten Workers.

Non è chi giudica che conta, gli onori spettano a chi è attualmente nell'arena

Se per “arena” definiamo la nostra collettività, i gladiatori che ogni giorno si sporcano le mani sono sicuramente quella classe di lavoratori che costituisce la base e il pilastro, ma che spesso diamo per scontati. Che sia dai social network, dalla tv o dai cartelloni pubblicitari, la società sembra comunicare un solo messaggio: non è importante quello che fai, conta solo come appari. Maggiore il numero di like, maggiore sarà il prestigio.

Ma a cosa serve osannare blasonati chef che passano il proprio tempo ad insultare altre persone? Non assaggeremo mai le pietanze preparate da loro. Come possiamo definire quindi le loro competenze attraverso una televisione? L’unico piatto che potremo giudicare è lo schermo della tv.
Personaggi illustri che recitano la parte dei duri, da un lato insultando gli improvvisati cuochi da reality e dall’altro sponsorizzando prodotti da fast food. Esistono però dei lavoratori dimenticati, i cosiddetti Forgotten Workers. Queste persone sono attorno a noi, molto spesso siamo noi. Preparano il cibo che mangiamo in pausa pranzo, guidano l’autobus che porta i nostri figli a scuola, cuciono i nostri vestiti o gettano l’asfalto che calpestiamo. Stringono nelle proprie mani l’intera nazione, senza accorgersene. Ciascuno detiene un pezzettino ed insieme formano un tutto.

Quando sono solo amo camminare e riflettere. Il lavoro di fotografo, si sa, permette di viaggiare e viaggiando per il mondo ho avuto modo di approfondire il mio rapporto con questi Forgotten Workers. Mi sono fermato ad osservarli, parlare con loro e studiare le reazioni. Succede, ad esempio, che un cliente entra in un bar per sorseggiare un caffè. Ritira lo scontrino alla cassa senza mai incrociare lo sguardo con chi batte i numeri sul display. Adoperati dai clienti quasi fossero delle casse automatiche con un nome stampigliato sul petto, smontano dal proprio turno di lavoro per poi scivolare via verso casa.

L’altro giorno ero seduto in una tavola calda. Ad un certo punto della serata fa la sua comparsa il figlioletto di un cameriere, 6-7 anni circa, si trattava evidentemente di una visita a sorpresa al papà durante il turno. Il cameriere totalmente preso dal suo operato, correva su e giù per servire i clienti, assorbito dal proprio lavoro. Come un equilibrista sgusciava tra i tavoli con decine di piatti tra le mani quando ad un certo punto vede il piccolo. La reazione è stata bellissima, il figlio aveva gli occhi colmi di gioia ed orgoglio nei confronti del padre che lavorava, a sua volta il genitore rifletteva una mescolanza di emozioni: felicità per la visita, mista ad imbarazzo. Improvvisamente era passato da lavoratore dimenticato a protagonista della serata. Anche io, da spettatore esterno, ho avvertito una sensazione di orgoglio per quell’uomo. Una certa empatia con il bambino ed in qualche modo la sensazione di poter comprendere quelle emozioni, condividerle con lui e farle mie. Anche se solo per qualche istante.

Non lo so se è stato il viaggiare a farmi cambiare il modo di vedere il mondo o se ha semplicemente risvegliato in me un interesse verso quello che mi circonda. So solo che ogni volta che prendo un aereo torno a casa con un souvenir nuovo all’interno di me stesso: un’apertura ed un’ottica diversa con le quali osservare la nostra comunità. Sempre più disinteressato al materiale, sempre più disinteressato al superficiale. Purtroppo però, il viaggio mi ha portato anche a scoprire che la situazione dei lavoratori dimenticati è un fenomeno di classe, sostanzialmente globale e non localizzato in una singola area geografica. Nelle Americhe, come in Myanmar o anche in Giappone, più il lavoratore è umile, più il suo operato passerà inosservato.

Sono le 5 del mattino, trovo la forza di alzarmi dal letto dell’hotel in cui ho dormito. A tentoni, per evitare l’abbaglio della luce, apro il rubinetto e lavo il viso. L’acqua tiepida sgorga verso il basso ed io, ancora addormentato e con la riga del cuscino sulla guancia, la imito: scendo le scale verso la strada. L’aria di Lima è umida, appiccicosa ed il cielo è uggioso come di consueto. Il grigiume è una delle tante peculiarità della capitale del Perù. Dopo una settimana di lavoro in Sud America mi reco in aeroporto per tornare a casa.
Viaggio interminabile, due scali dicono. Salvo imprevisti.

In aeroporto percorro il corridoio che conduce ai gate di partenza. Tre lavoratori, probabilmente militanti reduci da un turno di notte, sono accasciati per terra e cercano di riposarsi. Coloro che viaggiano, procedono con l’inosservanza tipica di chi, al supermercato, passa in una corsia nella quale non deve comprar nulla. Eppure probabilmente quelle persone hanno lavorato tutta la notte per permettere a noi tutti di salire sull’aereo che ci riporta a casa.

È New York il crogiolo delle culture mondiali, ne sono sicuro.
Non esattamente la tipica città americana, è troppo diversa ed unica nel suo genere. Un ombelico che offre una visione più ampia.

Nel freddo inverno del 2015, quando su NYC si sono abbattuti i -20°C e le rive dell’Hudson sono ridotte ad una pista di ghiaccio, mandrie di Newyorkesi defluiscono come un fiume in piena verso il lavoro. Il più di loro cammina, anzi, corre. Non presta attenzione a chi ha alla propria destra e chi alla propria sinistra. Tira dritto, entra in uno Starbucks che fa angolo, ordina un caffè lungo, pagato con carta di credito. Ritira il bicchiere con il proprio nome scritto a pennarello e continua a correre verso il lavoro. La città migra letteralmente da casa all’ufficio. Ciascuno di loro è di fatto un Forgotten Worker, ma non se ne accorgono.

Tutti noi amiamo quando il nostro impegno viene riconosciuto, ma non possiamo sempre aspettare che qualcuno se ne accorga. Dobbiamo essere noi a fare il primo passo, dunque perché non iniziare a cambiare le proprie abitudini? Abbiamo il potere di riconoscere l’impegno altrui. I newyorkesi in corsa per il lavoro possono guardarsi attorno e smettere di essere dei singoli, quanto più un tutt’uno. L’idea è quella di spingere una piccola palla di neve giù da una montagna, con la speranza che rotolando quella pallina diventi sempre più grossa, talmente grossa da non temere di essere fermata dagli alberi che di tanto in tanto incontrerà sul cammino.

Quindi cosa intimidisce l’uomo? Mancanza di volontà? Forse, ma non solo.

Penso che in ciascuno vi sia insita una forza e che la maggior parte delle volte necessiti semplicemente di essere indirizzata. Probabilmente chi cammina senza guardare né a destra e né a sinistra lo fa senza rendersene conto, o forse non gli è mai stato insegnato a fare diversamente.
Se siamo tutti uguali, tutti lavoratori dimenticati, che sia il caso di iniziare a darci reciprocamente il rispetto che meritiamo? Che sia il caso di imparare a soppesare chi davvero fa qualcosa di importante per noi e chi invece riceve fin troppe attenzioni?

Le persone hanno solo necessità di una piccola spinta per aprirsi, molto spesso sono incuriosite ma spaventate. Spaventate di quello che è diverso e spaventate dalle convenzioni imposte dalla società e dal tempo corrente.
Prendiamo un lavoratore di Brooklyn, più precisamente di Coney Island. Abbastanza giovane ma dallo sguardo segnato dalla fatica. Lui, insieme ad altri due colleghi esce da un Popeyes, una nota catena di fast food della Louisiana. Pranzo fugace per poi prendere un autobus e tornare in cantiere. Passa inosservato in mezzo alle persone quando ad un certo punto un fotografo italiano lo ferma. E’ stranito, timido e quasi spaventato. Il fotografo gli spiega che è un collezionista di volti, che ama il suo e che vorrebbe un ritratto. I due colleghi ridono come scolarette di 100 Kg, dietro degli occhialoni in plastica trasparente di chi deve proteggersi dalle schegge. La prima reazione del modello è stata quasi di timore, una volta spiegate le ragioni dell’interessamento si rilassa giusto il tempo per poter effettuare lo scatto, il tempo di una fermata di autobus.
Il pullman accosta, apre le porte, avrebbe potuto utilizzare la scusa per scappare. Decide invece di non farlo e prendere il prossimo.

La sua storia, mentre me la racconta, sembra quella di tutti noi.

Trapani, profondo Sud Italia.

Nonostante siano solo le dieci del mattino la luce del sole martella sugli occhi più di un fabbro che modella il ferro.
Un uomo è seduto su un argine, mette gli occhiali da sole sul viso, solo un attimo prima li stava usando come copricapo. Adoro il modo in cui li appoggia sul naso perché mi ricorda Mastroianni in uno dei sogni di Fellini.

Gli uomini che lavorano nelle saline fanno pausa alle 10 mangiando un panino al sacco. Iniziano a lavorare presto per non soffrire troppo il caldo e di conseguenza i ritmi sono un po’ diversi. I lavoratori del sale sono tutti più o meno simili, corpi muscolosi e sudati, abbronzati fino al punto di essere neri come i loro capelli. Sguardo che appare truce e serioso, ma in realtà è solo stanchezza. Le loro condizioni di lavoro sono durissime: non vi è una sedia, un filo d’ombra, non vi è fresco e non vi è acqua corrente. Al loro fianco ci sono delle piccole brocche d’acqua dolce che diventano inevitabilmente calde sotto il sole rovente di Sicilia.

Mentre alcuni riposano, altri stringono nei pugni i manici di carriole da muratore. Su e giù, scaricano cumuli bianchi come neve.
L’aria è così satura di sale che bastano pochi minuti per sentire arricciare la pelle. Ho provato una sensazione di profondo rispetto per questi lavoratori, soprattutto quando ho realizzato che è grazie a loro che possiamo mettere il sale sulle nostre tavole e la prossima volta che condirò l’insalata non lo farò con leggerezza, penserò alla fatica scolpita sui loro volti marmorei.

Chissà se anche lo chef in TV sa da dove proviene quel sale.

Di storie come queste ne ho collezionate tante, ma a ben vedere non c’è necessità di raccontarle tutte o di recarsi dove sono andato io per conoscerle. I Forgotten Workers abitano nella quotidianità e sono tutti intorno a noi.
Questo racconto di vite altrui non è altro che uno spunto riflessivo. Il concetto che ho tentato di esporre attraverso le mie esperienze si basa sul fatto che tutti noi abbiamo bisogno di essere rispettati e di rispettare il nostro prossimo. Apprezzarne l’operato e la professionalità, perché spesso dietro quella professionalità c’è tantissimo lavoro nascosto e questo lavoro non trova la giusta riconoscenza.

Facciamo il primo passo imparando a ringraziare, grazie ai Forgotten Workers il puzzle è completo: non solo una scatola piena di pezzettini, quanto più un’unica immagine dalla bellezza totale.

Per richiedere delle stampe

Tutte le immagini contenute in questa galleria sono sono in vendita come stampe da collezione.

Le dimensioni più diffuse sono le seguenti:

  • Formato 112x168cm
  • Formato 75x112cm
  • Formato 60x90cm (A1+)
  • Formato 60x42cm (A2)
  • Formato 48x33cm (A3+)

Si spedisce in tutta Italia, ed è possibile pagare con bonifico bancario o Paypal. Inoltre tutte le stampe possono essere pannellate per poter essere esposte in casa o in ufficio senza necessità di acquistare ulteriori supporti a parete.

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